Siamo già in presenza di un lunghissimo periodo pre-elettorale, tra referendum, elezioni regionali, elezioni nazionali, elezioni provinciali e, infine elezioni europee. Per questo vale la pena di soffermarsi su alcuni aspetti generali di questo fenomeno.
Il primo aspetto è che senso abbiano queste elezioni così diffuse, ripetute, in fondo, ripetitive. La risposta ovvia è che la consultazione popolare, specie se articolata a livello locale, dà la misura non solo della partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica ma, altresì, del tasso di gradimento delle politiche seguite dai pubblici poteri. Una risposta condivisibile, ma troppo ovvia per non suscitare anche qualche riflessione.
La partecipazione popolare va scemando nei Paesi democratici dell’Occidente, secondo una tendenza quasi inarrestabile. L’interesse del cittadino è remoto, quello dell’elettore è più diretto, ma sempre di più si allarga la forbice tra gli acquiescenti indifferenti e i partecipi alle elezioni. Questo fenomeno può significare due cose diametralmente opposte: un’indifferenza dovuta al fatto che, qualunque siano i risultati elettorali, sostanzialmente non mutano gli assetti sociali, oppure, il rifiuto di partecipare a una specie di verifica perché, tanto, non cambia nulla.
Questo scetticismo si accompagna a una valutazione fortemente critica della classe dirigente (tanto sono tutti ladri, a loro interessano solo i posti, sono sempre gli stessi, è tutta gente che non ha mai lavorato veramente neppure per un giorno). Critiche ingenerose, indubbiamente, ma molto diffuse. Il cosiddetto populismo nasce, appunto, da questo genere di convinzione di cui si fanno interpreti alcuni gruppi che, una volta raggiunto il potere, si comporteranno sostanzialmente come un’élite che si sostituisce alla precedente. Chi resta o è un transfuga o è un tecnico, sempre che poi non si adegui al nuovo corso.
Il secondo aspetto è che la verifica elettorale dà lo stato della situazione e consente un ricambio nelle élites al potere nelle varie strutture locali. Questo suscita un certo interesse, ma la gente è consapevole del fatto che non ci sarà nessuna rivoluzione epocale. Forse, nel migliore dei casi, solo qualche novità di poco conto, ma tutti sanno che, soprattutto in un’epoca di crisi finanziaria come l’attuale, quattrini non ce ne sono e, dunque, non c’è molto da sperare nel cambiamento. Questo tipo di mercato elettorale può definirsi atonico.
Solo alcuni temi di fondo stimolano l’immaginario collettivo, anche per effetto del martellamento mediatico (si pensi al referendum sulla forma dello Stato, monarchia o repubblica, o sul divorzio, sull’aborto, sulla riforma della Costituzione), temi più istituzionali che politici in senso stretto. Qui, l’appello al popolo ha avuto successo.
Al contrario, la possibile alternanza al potere non sembra suscitare grandi emozioni. Il sistema elettorale, benevolmente concepito per garantire la governabilità di un Paese, nella realtà è solo un modo per distorcere od orientare l’elettorato a fini strettamente politici, portando spesso a triangolazioni di potere fra gruppi che fino alle elezioni e immediatamente dopo si sono aspramente osteggiati.
L’avvento della televisione e del web, con la rete, la grande invenzione elettorale di 5Stelle, ha modificato in senso sociale la capacità d’individuare i possibili candidati. Il consenso a questo punto non si basa più sulle qualità intellettuali del prescelto ma, piuttosto, su diversi gradi di fisicità: se il candidato è apparso più volte sullo schermo, se ha un sorriso telegenico, se si fa notare per le proprie bizzarrie, addirittura, come negli Stati Uniti, se ha dietro una famigliola di bell’aspetto con i figli incorporati e la moglie benevolmente trepida per le sorti politiche del coniuge che si presenta all’elettorato.
In realtà, la qualità delle idee (o delle provocazioni), non interessa tanto quanto le caratteristiche fisiologiche del candidato. All’elettorato della sua capacità di amministrare e d’interpretare correttamente i bisogni della gente non importa granché.
La generale mancanza d’informazione dell’elettore non è dovuta alla carenza d’informazioni. Anzi, questa essendo l’epoca della comunicazione, le informazioni sono ampiamente disponibili ma quasi nessuno si pone il problema di filtrarle e di valutarle. Le fake news sono un aspetto importante della competizione elettorale il che, per chi deve governare la complessità di uno Stato moderno, è piuttosto scoraggiante.
In sostanza, l’esercizio della democrazia si traduce in una rappresentanza popolare molto composita, scarsamente informata, più propensa a decidere per maggioranze artificiose che a dibattere con serietà i problemi. Il Parlamento diventa, dunque, una specie di sovrastruttura istituzionalmente obbligatoria ma solo relativamente efficace. Il vero potere lo esercita l’esecutivo che, forte di una maggioranza, se sospetta difficoltà o ritardi nel dibattito parlamentare, decreta direttamente, invocando un’urgenza molto relativa.
L’imminenza delle elezioni europee, che dovrebbe segnare una svolta, in un senso o in un altro, per le democrazie occidentali, si confronta con la mancanza di un programma per i principali contendenti.
Appare scontato che l’Unione europea, almeno nell’ultimo quinquennio, si è trascinata nell’agone internazionale e nella politica interna senza una chiara direzione politica, alla napoletana “tirando a campare”. E’ evidente che un cambiamento di politica e di uomini s’impone. La questione è verso quale intento, per fare che cosa.
L’idea d’Europa non è fuori dagli schemi mentali dell’elettore. Le lamentazioni nei suoi confronti sono più per il modo con il quale l’Unione è stata governata che contro l’idea stessa dell’Unione. Tutti, inconsciamente, si rendono conto che l’unità europea, sotto molti aspetti, è un risultato positivo di aggregazione e di svecchiamento. Il fatto stesso che ci si ponga il problema di una sua riforma significa che la sua abolizione è fuori discussione. La libera circolazione in Europa, Erasmus per gli studenti, lo stesso euro, così chiacchierato, una comune normativa di sicurezza per i prodotti industriali sono stati fattori notevolmente aggreganti per l’opinione pubblica.
Manca, invece, un’identità europea consolidata, un’identità storico-culturale sulla quale puntare come autentici cittadini europei. Manca, altresì, un progetto di alternativa al disegno europeo che, dopo settant’anni, necessita di una profonda revisione. Questo è il vero punto debole delle aggregazioni politiche polinazionali che si affronteranno alle prossime elezioni europee. La gente andrà a votare in base a vecchi schemi ideologici, se non si offre una chiara prospettiva del futuro di questa Europa.
Pochi mesi ci separano dal maggio 2019 ed è forse già tardi per presentare delle alternative. Sarebbe una follia un nuovo quinquennio senza idee, senza proposte, senza riforme.
Roma, 14/10/2018