Mi occupo di sanità da quasi trent’anni e ho passato la maggior parte del mio tempo lavorativo nei corridoi di tutti o quasi gli ospedali italiani., trovando enormi differenze tra di loro, trovando personale di altissimo livello in ambienti di pessima qualità, ma anche il contrario : persone di pessima qualità in ambienti di livello altissimo.
Nei mesi passati (e ancora oggi) ho potuto provare non più come fornitore ma come utilizzatore la qualità di tre reparti di due ospedali romani, e mi viene da fare alcune considerazioni che voglio condividere con voi, senza la pretesa di avere ragione, ma con la certezza che quello che vi racconto non è “di seconda mano”, ma è esperienza diretta.
Non vi dirò nemmeno i nomi dei reparti perché voglio evitare speculazioni su chi potrebbe dirmi che a lui è andata peggio, che questo o quel medico è un cane, e altre amenità del genere.
Ho trovato personale di altissimo livello, preparato, gentile, professionale, sempre presente. Medici che hanno operato per ore senza mollare mai, per salvare tante vite. Qui non c’è e non ci può essere un “cartellino”, fino a che l’intervento non è finito i chirurghi e il personale di sala restano lì, punto e basta. Lo stesso vale per i reparti, dove c’è sempre qualcuno che lavora e che, secondo me, esegue una delle professioni più difficili del mondo: aiutare. Lamentarsi è molto, troppo facile, ma ci scordiamo che ogni giorno dagli ospedali italiani escono pazienti guariti.
Poi, una cosa che mi colpito, visto che sto parlando di reparti ad altissima criticità, è la solidarietà che scatta tra chi passa ore, giorni e notti accanto ai malati. Ho visto persone di tutto il mondo, arrivati a Roma perché “qui ci sono i migliori” che si interessa di te, del tuo parente malato, che porta un regalo quando esce, persone di tutte le classi sociali che cercano di vivere con solidarietà momenti drammatici. Qui non ci sono differenze, non ci sono divisioni perché non ci possono essere. Domina spesso la tensione, la paura, ma si fa fronte comune e ci si sorregge a vicenda.
Capisco che parlare di queste cose a tre giorni dal Natale può sembrare inopportuno, ma vi dico che inopportuno sarebbe non farlo, perché lo spirito del Natale non è quello della corsa alla totale inutilità dei regali, o quello delle cene di auguri tra persone che per 364 giorni all’anno si odiano ma stanno insieme perché “a Natale siamo tutti più buoni”, facendo vincere quella ipocrisia dominante che ci prende tutti, prima o poi, e alla quale anche io non sono estraneo.
Ma, lasciatemelo dire, oggi il mio augurio di Natale va, prima di tutto, a chi sta lottando e a chi, per lavoro o per affetto, è vicino a chi lotta.
Per il resto, vince il Mulino Bianco.