1° Maggio, festa del lavoro.
Anche oggi, come il 25 aprile, credo non ci siano motivi veri per augurarsi a vicenda “buon 1 maggio”, trovo che sia sterile farlo.
Il lavoro è un tema dannatamente serio, anche le battute che ho visto sui social sono, secondo me, del tutto fuori luogo.
Mi occupo di “risorse umane” come si dice in gergo da più di 2o anni; ho assunto decine di persone, ne ho anche licenziate. Assumere qualcuno è una bella sfida, prima di tutto con sé stessi, con la propria capacità di capire se “è la persona giusta”, con tutto quello che poi serve per farla crescere, inserirla nel contesto e farne una risorsa.
Licenziare qualcuno è un passaggio spesso obbligato, io non mi sono mai divertito per nulla nel farlo, ma c’è chi con il lavoro ci scherza, convinto che “tanto non mi beccheranno mai”, e invece ti beccano, eccome.
Oggi dirigo una piccola azienda che si batte tra mille difficoltà, molte delle quali esterne alla struttura stessa, la burocrazia kafkiana, le tasse, la politica sensibile solo a parole, la finanza che finanzia solo chi ha soldi e non chi ne ha bisogno, e potrei continuare.
Ma i dipendenti (che io chiamo tutti colleghi, in maniera del tutto indipendente dal loro ruolo) si fidano, cercano di capire quello che si sta facendo per portare avanti l’azienda, a volte si incazzano per quello che succede, ma seguono le indicazioni e fanno, magari malvolentieri, quello che si dice loro di fare. Ma lo fanno. La differenza sta tra l’autorità e l’autorevolezza.
Oggi tutti si riempiono la bocca con la parola “lavoro”, ma di concreto si vede molto poco in questo sciagurato Paese: non ho mai creduto al milione di posti di lavoro (che infatti non sono mai arrivati), non ho visto risultati eclatanti con il jobs act, non vedo politiche finanziarie serie sulle aziende e sull’imprenditoria. Forse sono cieco io, ma sono ipovedente insieme alle migliaia di manager, imprenditori e lavoratori che hanno scelto di andare all’estero a lavorare o a impiantare le proprie aziende. Solo nel 2015 mi pare di avere letto che 15.000 managers abbiano scelto di lasciare l’Italia: siamo ciechi in tanti, allora.
I Sindacati hanno perso, nel tempo, il loro vero ruolo che non è e non dovrebbe essere politico, ma sindacale nel senso più stretto del termine: rivorrei Lama, Carniti e Benvenuto piuttosto che i grigi burocrati di oggi.
Sento alla nausea il problema del lavoro giovanile, e guai se non se parlasse; ma ci si dimentica che ci sono in Italia migliaia di persone con più di 50 anni che sono magari rimasti invischiati nelle pieghe della Legge Fornero (grazie, Dottoressa Fornero, peccato che Lei all’estero non ci vada), che non hanno più lavoro, non hanno la pensione e sono fortunati se hanno un partner che tiene duro e sostiene la famiglia. Ma spesso non è così: anche qui dove vivo io, zona “bene” di Roma, capita (è successo pochi giorni fa) di trovare nei parcheggi macchine con famiglie intere che dormono lì perché, dopo aver perduto il lavoro, hanno perso tutto.
Sentirsi dire che “preferiamo una persona più giovane, deve capire” è drammatico, e anche con poco senso. Ma succede: un giovane corre di più e costa meno. L’esperienza accumulata in anni di lavoro non importa a nessuno. Amen.
Forse è per questo mio modo di vedere il lavoro che non sarò mai come Sergio Marchionne.