12/02/2019
L’attuale protesta degli allevatori in Sardegna apre un vaso di Pandora sulla filiera italiana del latte ovicaprino, ‘from feed to fork’. Una filiera afflitta da una strategia miope, che ha alimentato le speculazioni private sotto l’indifferenza della politica. È ora di approfondire il tema affinché i ConsumAttori, i veri padroni del mercato, possano aprire gli occhi e fare la loro parte per contribuire al bene comune.
Produzione ovicaprina, Europa e Turchia
Il progetto EU Sheepnet (‘Sharing Expertise and Experience towards sheep Productivity through NETworking’), nel 2017, ambisce alla ‘condivisione di competenze ed esperienze sulla produttività degli ovini attraverso la costituzione di una rete di lavoro internazionale’. I Paesi coinvolti sono sette in UE – Francia, Irlanda, Italia, Regno Unito, Romania, Spagna (con vistosa assenza della Grecia) – oltre alla Turchia. (1)
La produzione di latte ovino in questi Paesi è storica e significativa. 85 milioni di pecore sono allevati in Unione Europea da 830 mila operatori, a cui se ne aggiungono 31 milioni nella sola Turchia presso le 127 mila aziende censite. In Europa però, si apprende dagli atti del progetto, ‘il numero degli allevatori si è ridotto del 50% dal 2000 a oggi’ e ‘l’attuale declino del comparto è visto come un pericolo per lo sviluppo sostenibile delle aree generalmente considerate meno favorite’. Per rafforzare il settore ovino, i ricercatori considerano essenziale aumentare la produttività dei capi, all’insegna di sostenibilità e benessere animale. Incrementare cioè la produzione di carne (numero di agnelli allevati per animale avviato alla riproduzione) e di latte (numero degli ovini in produzione per pecora avviata alla riproduzione).
La rincorsa alla produttività tuttavia non coincide né con il benessere animale e l’ecosistema, né con la qualità dei prodotti. Nel settore bovino, le mucche da latte, tra genetica e alimentazione spinta, negli ultimi decenni hanno superato i 50 litri/giorno con una drastica riduzione dell’aspettativa di vita (dai 16 ai 4 anni). La ‘dittatura dei numeri’ è prevalsa sulla qualità nutraceutica degli alimenti, sine cura dell‘impatto su ecosistema e biodiversità delle monoculture imposte dalla domanda di mangimi ‘performanti’, anche OGM, a basso prezzo . Sono poi sopraggiunti il crollo della richiesta e dei prezzi, fino alla crisi mondiale del latte. Ma la lezione, a quanto pare, non è bastata.
Italia-Grecia, ‘una faccia una razza’?
Grecia e Italia condividono la cultura della pastorizia ovina. Ma le loro produzioni hanno impatti ben diversi sulle rispettive economie. Secondo i dati dell’American Dairy Science Association, il settore ovicaprino in Grecia vale il 9,4% del Total Agricoltural Output (TAO ), con la più alta specializzazione nel settore lattiero-caseario ovicaprino. I prezzi medi del latte ovino greco, nell’ultimo decennio, sono stati elevati (€ 0,951/l) e costanti. Con un punto di pareggio stimato in € 0,85/l per il latte di aziende intensive (area di Chios) e € 1,14/l per le aziende estensive (gruppi transumanti).
In Italia, il latte ovino contribuisce al TAO in misura dello 0,7%. (2) Le pecore da latte rappresentano il 75% della popolazione ovina italiana, con allevamenti di tipo semi-estensivo che utilizzano principalmente pascoli naturali per l’alimentazione. Il pascolo è stagionale e varia in base alla posizione e all’altitudine. Il numero di pecore da latte è diminuito gradualmente nell’ultimo decennio (-1,15% l’anno), subendo un crollo (-0,5 milioni di capi) nel 2015, a causa di una grave epidemia di blue tongue. Nello stesso periodo, la produzione di latte ovino è diminuita solo dello 0,6%/anno, ma ha raggiunto il rendimento più basso (85 l/pecora) tra i Paesi FGIS (Francia, Grecia, Italia, Spagna).
La popolazione ovina da latte in Italia è concentrata in Sardegna (21,8%) e Sicilia (11,3%), e nelle regioni del Centro (Toscana, Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo, per un complessivo 21,8%). Le razze impiegate sono soprattutto Sarda (80%, 201 litri di latte per pecora), Comisana (13%,159 litri), Valle del Belice (3%, 163 l), Massese (4%, 129 l) in Toscana. Il reddito principale degli allevamenti ovini italiani proviene dal latte (72%), seguito dalle vendite di agnelli da latte o agnelli leggeri (21%) e dai sussidi (7%). La componente principale dei costi è legata al lavoro agricolo (38%), seguito da costi variabili (29%), il cui 77% è rappresentato dai costi per l’alimentazione. (3)
Il prezzo del latte ovino italiano ha subito oscillazioni significative, da €1,20/l nel 2013 fino al baratro attuale di € 0,60 (passando per € 0,85 nel 2014, € 1,05 nel 2016, € 0,70 nel 2017). A fronte di un punto di pareggio stimato in 0,95 €/l. (4) Del latte destinato all’industria lattiero-casearia (71% sul totale), il 30% è assorbito dalla produzione di Pecorino romano DOP, primo formaggio ovino prodotto in Italia e leader nel mercato internazionale dei formaggi di pecora.
Pastorizia in Italia, gloriosa leggenda e tragica realtà. Una crisi annunciata
La crisi attuale degli allevamenti ovini in Sardegna, a umile avviso degli scriventi, è il prevedibile effetto di una strategia miope, ispirata da Coldiretti e focillata dalle politiche europee riflesse in EU Sheepnet. Le pratiche estensive di allevamento sono state convertite in semi-estensive, con stabulazione in ovile e inevitabile aumento dei costi variabili (mangimi), ampliamento delle aziende, maggiore dipendenza dai sussidi. Il latte ottenuto in stalla, com’è ovvio, ha qualità ben diverse da quello di animali al pascolo, ma ai consumAttori non è dato sapere come sono state allevate le pecore all’origine dei vari formaggi. Beata trasparenza (sic!).
Già nel 2010 la crisi della pastorizia era emersa, con la denuncia di numerose aziende agricole che ‘scivolavano’ dolcemente verso un allevamento intensivo senza alcuna progettualità, ‘mettendosi in una forma di dipendenza verso le aziende casearie’. Pochi soldi ma subito, era questa la strada da seguire? Il prezzo del latte a quel tempo era di € 0,65/l, lo stesso di 28 anni prima (1200 lire, nel 1982). I gironi danteschi, negli anni a seguire:
– 2012–2014, impennata della quotazione del Pecorino romano DOP, grazie alla crescita dell’export (+7,4% nel 2012, +10,5% nel 2013). Il prezzo del latte, pur raggiungendo il culmine nel 2013 (€ 1,20), non segue la performance del cacio (almeno per i produttori sardi). Aumentano invece i costi di produzione (mangimi +4%, prodotti energetici +9,7%, salari). Il costo medio di produzione di un litro di latte (anche bovino) in Europa, secondo il Milk Production Cost, ha un costo di € 0,45, (5)
– 2015-2017, calo graduale del prezzo del Pecorino romano (da € 9,23/kg fino a 5,10). Il mercato si ferma nel 2017, con forme invendute e stop agli acquisti di latte, crollo del suo prezzo all’acquisto a € 0,60.(6) Il costo medio per produrre un litro di latte ovocaprino, nel 2017, è stimato in € 1,12/l. Viene promosso l’esperimento del Pecorino Solidale Dop, con l’effimero impegno delle industrie casearie ad acquistare il latte a un prezzo equo, per una fornitura di prova fino a € 150 mila.
La politica locale raccoglie i segnali di disagio, partecipando a proteste pacifiche purtroppo prive di riscontri. La quotazione del Pecorino romano rimane l’ago della bilancia della produzione lattiero casearia sarda e la Regione non rispetta le promesse di stanziamento di finanze regionali a favore del comparto. Coldiretti Sardegna propone alla Regione di adeguare le quotazioni della materia prima a quelli del prodotto finito. La Regione risponde che sarà Oilos (Organismo Interprofessionale Latte Ovino Sardo) a lavorare in questa direzione, ma la stessa Oilos si sottrae alle vacue promesse,
– 2018-2019, la quotazione del Pecorino romano risale a 8,50€/Kg. Le organizzazioni agricole chiedono di adeguare i prezzi di acquisto della materia prima, senza successo. In Sardegna è lo sfascio. 14 mila aziende agricole, 37 cooperative di conferimento, 35 mila addetti, 100 mila lavoratori nell’indotto. Vendere latte a € 0,60, rispetto a 1,20, comporta una perdita secca di 228 milioni di euro per l’economia circolante nella Regione. (7) Ma i Big di produzione e distribuzione, sulla penisola, non esprimono empatia.
Sardegna 2019, la protesta. Ragioni e soluzioni possibili
Alla forbice dei prezzi e alla carenza di visione strategica si aggiunge un ulteriore problema, l’importazione indiscriminata di latte dall’estero. L’impiego di latte straniero èinfatti rigorosamente vietato nelle sole produzioni DOP, mentre è possibile utilizzare latte greco o turco in ogni altro prodotto lattiero-caseario senza neppure informare di ciò i consumatori. (8) L’ampia disponibilità di materia prima estera a prezzi inevitabilmente più vantaggiosi, non fosse altro per i minori costi della forza-lavoro, innesca perverse speculazioni le cui vittime sono sempre gli allevatori.
Il meccanismo della speculazione è semplice, l’impresa di trasformazione, atteso il calo dei prezzi per fare acquisti, può riempire i magazzini. Il prezzo risale lentamente, anche grazie al progressivo esaurimento scorte dei caseifici e delle cooperative. Al segnale di risalita, quando le cooperative e piccole industrie sono pronte a vendere, sopraggiungono gli speculatori con le scorte acquistate a basso prezzo, le immettono sul mercato sotto quotate, e la risalita si arresta. Prima di precipitare, con l’esplosione dell’offerta e la svalutazione del formaggio sotto. A questo punto, chi deve svuotare le cantine è costretto a svendere, ma il mercato è fermo. E si ripresenta il broker, soldi alla mano, pronto a ‘liberare’ l’allevatore dal suo problema, prendere o lasciare. Una dinamica non diversa da quelle che colpiscono altri settori (es. cereali, legumi, nocciole).
Il vaso è colmo ed è improbabile che l’industria casearia e la distribuzione – quand’anche organizzate in via cooperativa e/o ‘socialmente responsabili’ (almeno a parole) – possano garantire una soluzione di lungo termine per la salvaguardia della filiera ovina nazionale. In attesa di novità sui rimedi promessi dalla politica, si propone di riflettere su alcune opportunità:
A) riportare valore nelle aziende agricole, ripristinando le pratiche di allevamento estensivo anziché semi-estensivo con stabulazione. Il latte di stalla non ha nulla a che vedere con quello da pascolo, anche dal punto di vista nutraceutico. (9) I consumatori devono poter conoscere le pratiche di allevamento e alimentazione da cui derivano i prodotti, sia pure mediante informazioni volontarie in etichetta,
B) remunerare in misura equa gli allevatori. Con un premio a coloro che allevano gli animali al pascolo – i veri pastori – e un premio ulteriore a quelli certificati bio, i quali offrono ulteriori garanzie anche sul fronte del benessere animale. (10) Servono impegni volontari di industria e GDO, dei quali riportare evidenza in etichetta. Affinché i consumAttori possano davvero eseguire scelte responsabili di acquisto. Magari anche attraverso la Marca del Consumatore (MDC), il cui pecorino potrebbe venire promosso anche all’estero quale iniziativa di solidarietà internazionale,
C) introdurre l’origine obbligatoria delle materie prime, almeno in relazione agli ingredienti primari (quelli che rappresentano il 50% o più del prodotto finito) su tutte le etichette degli alimenti prodotti e commercializzati in Unione Europea. In aggiunta alla sede dello stabilimento d produzione, che a sua volta esprime dove il valore è stato realizzato. Si deve perciò dare seguito al più presto all’iniziativa dei cittadini europei #EatORIGINal! Unmask your food.
Le organizzazioni di produttori e i consorzi di fannulloni che dovrebbero tutelare l’intera filiera produttiva devono poi cercare sbocchi commerciali su nuovi mercati. Investire sull’export riferendosi a professionisti anziché alle clientele degli amici parcheggiati su lussuose poltrone. Con il supporto del web e dei social media, oggi più che mai indispensabili.
Unicità e tipicità di un latte sono caratteristiche che afferiscono alle proprietà del pascolo che l’animale consuma. È proprio il pascolo a determinare e aggiungere i caratteri primari di un prodotto, trasferendovi elementi distintivi e propri di un territorio, nel rispetto dell’ecosistema. Il passaggio a un modello intensivo o semi-intensivo, oltre a far perdere il valore distintivo associato al territorio e alla tradizione, aumenta i costi di gestione (mangimi e salari soprattutto, oltreché energia). Ma ancora oggi la Regione Sardegna consiglia di migliorare il tasso di prolificità e integrare l’alimentazione ‘casuale e spontanea del pascolo’ prediligendo integrazioni con Miscela di mais granella e FES (farina di estrazione di soia).
Il latte sardo potrebbe costituire un esempio di tradizione rurale millenaria e vincente, per l’intero settore alimentare italiano. E invece riflette oltre un decennio di inerzia, progettuale e politica. Gli unici in grado di rispondere con elasticità a una domanda di latte che oscilla sensibilmente in prezzi e volumi sono i produttori, i quali oggi protestano lo sfruttamento e gli abusi di una filiera che li ha soggiogati. Dopo averli illusi, con la complicità dei loro stessi rappresentanti, proponendo un modello già fallito nel settore bovino. È ora di riportare valore e trasparenza, per ottenere dai ConsumAttori i meritati premi.
Dario Dongo e Guido Cortese