Il 30.5.19 la Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, ha adottato una decisione in merito all’applicazione del Testo Unico Stupefacenti (TUS) alla vendita di quella canapa industriale che una legge dello Stato mira a promuovere proprio in quanto priva di effetti psicotropi. Stupefacente è solo la ‘interpretazione provvisoria n. 15’ dei togati di Roma che paiono aver preso ‘fischi per fiaschi’. In attesa di poter leggere il testo integrale della sentenza, un primo approfondimento.
Legge 242/16, promozione della filiera della canapa industriale
La legge 2.12.16 n. 242 – ‘Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa’ – ha la finalità di sostenere e promuovere la coltivazione e la ‘filiera della canapa (Cannabis sativa L.) quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione.’ (1)
Le varietà di canapa che la legge 242/16 ambisce a promuovere sono le ‘varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309’ (TUS). (2)
‘Il sostegno e la promozione riguardano la coltura della canapa finalizzata:
a) alla coltivazione e alla trasformazione;
b) all’incentivazione dell’impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali;
c) allo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l’integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale;
d) alla produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori;
e) alla realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca.’ (3)
Canapa industriale, coltivazioni e produzioni ammesse. In Europa e in Italia
Coltivare le varietà di canapa iscritte nel registro delle specie botaniche ammesse nel Catalogo Unico Europeo è un diritto pacifico, incontestato e incontestabile a chiunque. Aziende agricole e vivai, contadini e giardinieri, singoli individui. Nei campi e in serra, in giardino o in vaso, colture idroponiche. In Europa come in Italia, ove la coltivazione delle varietà di cui sopra – la cui genetica è stata selezionata al preciso scopo di garantire la sostanziale assenza di THC (tetra idro-cannabinolo, sostanza psicotropa invece presente in altre specie di piante) – ‘è consentita senza necessità di autorizzazione’. (4)
Le produzioni esplicitamente ammesse dalla legge 242/16, a partire dalle ridette varietà di canapa, sono molteplici:
‘a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;
b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;
c) materiale destinato alla pratica del sovescio;
d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
g) coltivazioni destinate al florovivaismo.’ (5)
Il ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali – con circolare 22.5.18, Chiarimenti sull’applicazione della legge 2 dicembre 2016, n. 242 – ha ribadito la liceità di coltivazione delle varietà iscritte nel ‘Common plant catalogue of varieties of agricultural plant species’. Precisando i limiti di THC da mantenere sotto controllo nella fase agricola, al preciso scopo di garantire l’esclusione delle piante e dei loro derivati dal campo di applicazione del TUS (Testo Unico Stupefacenti), come infatti previsto dalla legge 242/16.
Il ministero della Salute ha notificato alla Commissione europea, il 30.10.18, il progetto di ‘regolamento recante la definizione di livelli massimi di THC (tetraidrocannabinolo) negli alimenti’. Il provvedimento, basato su apposito parere dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), indica i limiti di THC da ammettere su ‘semi, farina ottenuta dai semi, olio ottenuto dai semi’ che derivino dalla ‘canapa per uso alimentare’ o ‘canapa’, pianta di Cannabis sativa L. rispondente ai requisiti dell’art. 32, comma 6, del reg. (UE) n. 1307/2013’. Altrimenti detta ‘canapa industriale’.
Lacune normative e mala politica a servizio di Big Pharma
Le tisane alimentari a base di infiorescenze delle specie di canapa ammesse sono ‘curiosamente’ sfuggite alle circolari ministeriali anzidette. La pubblica amministrazione ha dovuto assecondare la politica di governo, la quale non ha consentito di esporsi su un tema che la più becera e superficiale stampa generalista avrebbe certamente mal interpretato. L’utilizzo delle infiorescenze nella preparazione di tisane alimentari è in ogni caso evidentemente conforme al diritto europeo vigente. Chi scrive ha fornito alcune indicazioni sul c.d. ‘taglio tisana’, evidenziando le pratiche da seguire per garantirne liceità, sicurezza alimentare e corretta informazione al consumatore.
A livello europeo, Big Pharma sta provando ad aggiudicarsi l’esclusiva d’impiego dei più preziosi derivati della Cannabis Sativa L. Tanto che la Commissione europea – tra dicembre 2018 e aprile 2019 – ha compiuto ben tre giravolte sui cataloghi di ‘Novel Food’ e ingredienti cosmetici (CosIng). Chi scrive ha denunciato un abuso d’ufficio dei funzionari di Bruxelles (alla DG Grow, Unità D4). I quali infatti, proprio a seguito della denuncia, hanno cambiato le carte in tavola. E poi le hanno cambiate ancora, su evidente impulso dei lobbisti di Big Pharma.
La Commissione europea è giunta al paradosso di affermare la legittimità d’impiego del cannabidiolo (CBD) sintetico, nei cosmetici, ma non anche quello naturalmente estratto dalla pianta. Un’interpretazione a servizio dei soliti noti – oltreché priva di valore giuridico (6) – eppure capace di arrecare grave danno agli agricoltori e trasformatori di canapa in Europa. Il Parlamento europeo decaduto invece ha adottato a Strasburgo, il 13.4.19, una risoluzione ‘sull’uso della cannabis a scopo terapeutico’. Ove si disvela lo scenario distopico teorizzato dai colossi farmaceutici. Gli eurodeputati hanno dato atto di consolidata evidenza scientifica in merito agli effetti neuroprotettivi e terapeutici del CBD, escludendo ogni ipotesi di sua tossicità. E tuttavia hanno suggerito di riservare la commercializzazione dei miracolosi estratti agli oligarchi di Big Pharma. Escludendo così agricoltori e imprese di trasformazione alimentare.
La mala politica si è mostrata anche in Italia quando Matteo Salvini – in prossimità delle ultime elezioni europee – ha provato a fare ‘di tutta l’erba un Fascio’. Lanciando strali contro i ‘canapa shop’ che sono certo valsi a distrarre gli elettori dai temi politici che contano, economia e occupazione in primis. Sulla base di un clamoroso inganno, il falso assioma ‘canapa uguale droga’. Laddove invece – come la legge in vigore dimostra – le sole specie botaniche di Cannabis Sativa L. di cui si tratta sono quelle prive di effetti stupefacenti o psicotropi di sorta. L’inganno politico pre elettorale è peraltro valso a raccogliere i tributi di Confindustria e della nutrita lobby dei tabaccai. (7) I quali ultimi temevano la concorrenza della ‘cannabis light’ con le sigarette del monopolio.
Cassazione, bastonate a giorni alterni
I destini commerciali di principale interesse per la Cannabis Sativa L. oggi riguardano i settori alimentare e cosmetico. Al di là delle ingorde ambizioni di monopolio farmaceutico, ove pure la ricerca merita sviluppi. Le Sezioni Unite della Cassazione sono state adite per risolvere un contrasto di vedute, tra diverse Sezioni della Corte stessa. (8) Le quali:
– in alcuni casi hanno condannato la commercializzazione di infiorescenze di canapa come ‘spaccio di sostanze stupefacenti’ (seppure in assenza della ‘droga’, elemento oggettivo essenziale), (9)
– in altri casi hanno assolto gli imputati dall’accusa di ‘spaccio’, proprio perché i fiori di Cannabis Sativa L. da specie botaniche ammesse sono prive di effetti psicotropi. Con buona memoria di quanto stabilito nella legge 242/16, mediante la quale il legislatore ha inteso stabilire una filiera italiana della canapa anche per uso alimentare. (10)
Nel mezzo della diatriba tra ‘ermellini’ si trova un’ampia schiera di operatori. Contadini, imprese di trasformazione, distributori. Giovani, nella gran parte, e determinati nel portare avanti progetti di filiera che il legislatore promuove, il ministro padano accusa e gli ermellini bastonano, a giorni alterni. Un cortocircuito del sistema-Paese che rischia di mettere in crisi un settore agricolo redditizio e in crescita animato da imprenditori seri, i quali sono abituati a registrare i certificati di autorizzazione dei semi e i flussi materiali delle merci, nonché a ricevere frequenti controlli da parte delle autorità di polizia giudiziaria.
Sezioni Unite di Cassazione, estratto stupefacente
Le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione – chiamate a decidere se interrompere le bastonate a giorni alterni di imprenditori che operano nel rispetto della legge dello Stato – affidano a una laconica ‘informazione provvisoria’ l’estratto stupefacente del loro cogito. A seguire, il testo.
‘Questione controversa:
se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato dall’art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 242, e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa l., rientrino o meno, e se sì, in quali eventuali limiti, nell’ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa.
Soluzione adottata:
la commercializzazione di cannabis sativa l. e, in particolare, di foglie, infiorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n.242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati della predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa l., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante.’
Sezioni Unite, fischi per fiaschi
La ‘soluzione adottata’ non ‘solve’ proprio un bel nulla, salvo offrire una sponda ad altrettanto inutili commenti di una politica ottusa che si ostina a confondere:
– canapa industriale, una coltura che risale al Medioevo e attualmente occupa 4.000 ettari di terreni in Italia, fino alla metà del secolo scorso secondo produttore mondiale (con oltre 130 mila ettari coltivati) dopo l’Unione Sovietica,
– canapa ‘ludica’, con effetto stupefacente, del tutto estranea alla presente trattazione nonché all’ambito del giudicato in esame.
È manifestamente falsa l’affermazione degli ermellini secondo cui la legge 242/16 ‘qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa’. L’articolo 2 della legge invece autorizza esplicitamente la realizzazione di un’ampia serie di prodotti, in un elenco che non pare affatto esaustivo alla luce della ratio legis. L’obiettivo del legislatore è infatti quello di promuovere nel suo complesso la filiera della canapa industriale, dopo avere precisato che le specie botaniche incluse nel Catalogo Unico Europeo sono escluse dal campo di applicazione del Testo Unico Stupefacenti.
Gli oli di canapa a cui la ‘informazione provvisoria n. 15’ del Palazzaccio fa richiamo sono addirittura previsti nel registro dei c.d. botanicals adottato dai ministeri della Salute di Francia, Belgio e Italia (c.d. lista BelFrIt). Quali ingredienti ammessi negli integratori alimentari, che a loro volta si qualificano come ‘prodotti alimentari destinati a integrare la dieta normale e che costituiscono una fonte concentrata di sostanze nutritive o di altre sostanze aventi un effetto nutritivo o fisiologico’.
Questo obbrobrio giurisprudenziale contra legem sembra tra l’altro ignorare l’esistenza di una Politica Agricola Comune, nel cui contesto anche la filiera in esame si colloca. Nonché di un Mercato Unico, all’interno del quale le merci legittimamente prodotte nel rispetto del diritto UE devono poter circolare liberamente, sotto pena di infrazione a carico dello Stato membro. Così gli ermellini si contraddicono, un colpo al cerchio e uno alla botte. E dopo aver teorizzato l’applicabilità del Testo Unico Stupefacenti (TUS) alla vendita di derivati di canapa che per legge sono esclusi dal suo campo di applicazione, ribadiscono che il TUS non si applica quando le sostanze siano in concreto prive di effetto drogante. Cioè sempre, laddove i requisiti della legge 2 dicembre 2016 n. 242 vengano rispettati. Cortocircuito logico.
Sul pianeta Terra, in Italia come in Europa, coltivare trasformare e commercializzare specie botaniche ammesse di Cannabis Sativa L. e loro derivati rimane lecito, nel rispetto dei limiti di THC che la Commissione europea dovrà al più presto armonizzare sulla base di una valutazione scientifica del rischio di sicurezza alimentare da affidare all’EFSA (European Food Safety Authority). Applicandosi, frattanto in Italia, le soglie definite nel regolamento del Ministero della Salute. Peccato soltanto che la grave colpa dei supremi togati rimarrà impunita e che altri onesti imprenditori della filiera agroalimentare dovranno affrontare spese legali e frustrazioni per riaffermare il loro legittimo operato. Senza bisogno di scomodare, si spera, la Corte europea dei Diritti dell’Uomo né la Corte di Giustizia.
Dario Dongo