Condivido le riflessioni dell’amico Avv. Albanese sul tema più sentito di questi tremendi giorni di fine luglio.
Il suo è un parere non solo tecnico, da avvocato quale è, ma anche umano, su una vicenda che di umano ha ben poco.
Abbiate la pazienza, come esorta lo stesso Avvocato Albanese a fare, di leggere tutto, possibilmente senza farvi influenzare dalla marea di cose più o meno sensate che si sono lette e sentite in questi giorni e, forse, riuscirete farvi un’idea migliore sulla vicenda.
Anche se inutilmente, mi associo alle condoglianze alla Famiglia e all’Arma dei Carabinieri.
Un sentito ringraziamento all’Avvocato Albanese per questa sua nota.
“La cronaca di questi giorni di fine luglio è monopolizzata dagli aggiornamenti sulla terribile vicenda della morte per accoltellamento, in servizio, del Vicebrigadiere Mario Cerciello Rega dei Carabinieri di Roma. Un fatto grave e toccante, che inevitabilmente finisce per divenire oggetto di commento politico, in un momento di particolare sensibilità dell’opinione pubblica verso il tema dell’immigrazione, attesa l’attribuzione del gesto criminale a due stranieri, nella specie due giovani cittadini statunitensi.
Non vi è alcun interesse, da parte di chi scrive, a scendere nell’agone del confronto sul tema politico. Né di entrare nel merito di una vicenda di cronaca nera che farà il suo corso. Ma la coscienza del giurista, dell’avvocato che, tra le proprie attività professionali, esercita anche il diritto penale nelle aule dei più diversi tribunali italiani, impone una riflessione e non consente di tacere, di fronte al circolare di un’immagine che ritrae uno degli indagati, Christian Gabriel Natale Hjort, in stato di fermo per l’omicidio, bendato, con le mani legate e il capo chinato, su una sedia all’interno di una caserma dei Carabinieri.
Innumerevoli “meme” e commenti social inducono a far ritenere che l’opinione pubblica, sulla scia delle corrispondenti dichiarazioni delle rispettive parti politiche, sia divisa tra coloro che s’indignano per l’omicidio – posizione assolutamente condivisibile, tenuto conto non solo del disvalore assoluto dell’atto in sé ma, nella specie, altresì dell’alto valore umano, come marito e come volontario in tante opere caritatevoli, e dell’eroico impegno professionale, come uomo dello Stato, da parte della vittima – e coloro che, invece, s’indignano unicamente per il trattamento riservato al presunto colpevole.
Presunto. Così come ci induce a ritenere l’art. 27 comma 2 della nostra Costituzione, secondo il quale «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».
Un primo tema è quindi confutare l’approccio manicheo alla questione, per il quale o si sceglie una posizione populista e ci s’indigna unicamente per l’omicidio, sottintendendo che “quasi quasi l’assassino si è meritato quel trattamento”, all’esito giustificandolo; oppure si assume, invece, un atteggiamento c.d. “radical-chic” e ci s’indigna per il trattamento riservato al presunto colpevole, quasi dimenticandosi del grave crimine che avrebbe commesso.
Esiste tuttavia una via di mezzo, tra le due posizioni, che appare la più ragionevole.
Nessuno può soprassedere sulla gravità dell’omicidio, che all’esito della ricostruzione dei fatti potrebbe comportare, a seconda dell’inquadramento giuridico che assumerà nella specie la vicenda, addirittura l’applicazione della massima pena prevista dal nostro ordinamento, vale a dire l’ergastolo. Dunque, indignarsi per tale fatto è non solo comprensibile ma doveroso, per chi abbia un minimo di coscienza civile!
Ma ciò non significa che, nel mentre si riconosce questa gravità e ci s’indigna, da cittadini, per un gesto che ha non solo distrutto la vita di quella giovane famiglia ma ferito l’intero Paese, non si possa anche riconoscere che un altro ed opposto gesto ha parimenti ferito la nostra civiltà, il nostro stato di diritto, in sintesi tutti noi, anche se, purtroppo, di tale ferita moltissimi non riescono ad avvertire il dolore, a percepire il sangue che gocciola copioso, tanto quanto ne è purtroppo sgorgato dal corpo martoriato del giovane Carabiniere accoltellato. Forse, per un difetto di sensibilità e cultura probabilmente irrimediabile!
Dunque, le ferite sono due.
Chi scrive si augura, da cittadino, che i veri colpevoli dell’omicidio siano rintracciati e puniti così come previsto dalla Legge e come è giusto e sacrosanto che sia in un Paese civile. Perché ciò aiuterebbe a curare la prima ferita.
Ma, nel contempo, si augura che siano perseguiti anche gli autori dei gravissimi comportamenti che vengono ritratti dalla foto del giovane presunto omicida americano, ammanettato e bendato, in stato di fermo.Solo così anche la seconda ferita potrà essere curata.
Un comunicato diffuso il 28 luglio 2019 dalla Camera Penale Di Milano, emblematicamente intitolato “Good Morning Guantanamo”, evidenzia in modo magistrale come, sebbene «tecnicamente la fattispecie concreta non sembri sovrapponibile alla esangue disciplina nostrana sulla tortura, certamente è un metodo di forte coartazione psicologica mettere una persona nelle condizioni di perdere cognizione dello spazio, di quanto accade intorno a lui, nel timore, non irragionevole, di essere destinatario, nella immediatezza, di atti violenza, senza la possibilità di capire quali, da parte di chi e di non potersi proteggere almeno utilizzando le braccia a mo’ di scudo. Il tutto senza un motivo plausibile che non sia quello che sembra: fiaccare la resistenza e con ciò inducendo la rinuncia al diritto al silenzio. Un sistema di tortura, forse, fuori dallo schema legale che non sappiamo con esattezza per quanto si sia protratto, né in occasione di quali accadimenti: prima, durante o dopo la verbalizzazione delle “spontanee” dichiarazioni; uno spettacolo che non avremmo voluto vedere neppure “al lordo” del dolore e della concitazione degli operanti dopo l’omicidio di un collega, che non fa onore all’Arma – i cui vertici hanno immediatamente preso le distanze dagli autori promuovendo iniziative penali e disciplinari – che potrebbe persino portare alla inutilizzabilità degli atti investigativi, che non aiuta il corso della giustizia e non illustra l’immagine di un Paese che dovrebbe essere di diritto. Un sistema di tortura, perché altrimenti non può definirsi un trattamento atto a disorientare chi vi è sottoposto, raffinato, volto ad aggirare la legge penale e rozzo allo stesso tempo».
Un sistema di tortura. Raffinato perché volto ad evitare la connessa sanzione penale per chi lo applica. Rozzo, anzi barbarico, perché idoneo ad infliggere una sofferenza di stampo medievale che è l’esatta negazione di ogni civiltà giuridica contemporanea.
Chi scrive aggiunge: inutile ed anzi dannoso, perché di fatto idoneo a rendere non utilizzabile nel processo la confessione estorta e perché, al contrario, idoneo a stimolare una reazione diplomatica da parte del Governo U.S.A. per il trattamento riservato ad un cittadino americano.
Sulla questione sono intervenuti in molti, sia tecnici che politici.
Interessante appare, tra i tanti, l’intervento del Prof. Avv. Alan Dershowitz, dell’Università di Harvard, considerato uno dei maggiori penalisti americani: in una intervista pubblicata oggi (29/07/2019) da La Stampa, il giurista statunitense ha stigmatizzato l’importanza della fotografia in questione quale prova di una grave violazione dei diritti umani. Al di là di una serie di osservazioni abbastanza semplicistiche e qualche inesattezza tecnica – frutto evidentemente della non conoscenza diretta del sistema penale italiano ed europeo – l’insigne avvocato americano ha chiaramente ipotizzato una “soluzione diplomatica” della questione, evidenziando come la gravità della situazione possa comportare un intervento governativo a stelle e strisce. Assolutamente legittimo dal punto di vista americano.
[ L’intervista a Dershowitz è reperibile a questo link: https://www.lastampa.it/…/il-penalista-di-harvard-l-avvocat… ]
Ciò rende ancora più grave l’accaduto, considerando che mette l’Italia in condizioni di dover ricevere lezioni da parte di un Paese come gli Stati Uniti che, in fatto di violazioni dei diritti umani e di applicazione di pene inumane, non costituisce propriamente un modello di virtù. E ciò sebbene, nel mentre le colonie americane erano ancora alle prese con una costosa tazza di thè a Boston, da noi un certo Cesare Beccaria, nel suo trattato “Dei delitti e delle pene” (1764), dedicava alcune fondamentali riflessioni al tema della tortura
Se si ha la pazienza di leggerle, tali riflessioni offrono una rappresentazione plastica dell’inutilità della tortura ed appaiono di grande attualità. «Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per constringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato. Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. […] Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e’ non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati. Ma io aggiungo di piú, ch’egli è un voler confondere tutt’i rapporti l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti. […] Qual è il fine politico delle pene? Il terrore degli altri uomini. Ma qual giudizio dovremo noi dare delle segrete e private carneficine, che la tirannia dell’uso esercita su i rei e sugl’innocenti? Egli è importante che ogni delitto palese non sia impunito, ma è inutile che si accerti chi abbia commesso un delitto, che sta sepolto nelle tenebre. Un male già fatto, ed a cui non v’è rimedio, non può esser punito dalla società politica che quando influisce sugli altri colla lusinga dell’impunità. S’egli è vero che sia maggiore il numero degli uomini che o per timore, o per virtú, rispettano le leggi che di quelli che le infrangono, il rischio di tormentare un innocente deve valutarsi tanto di piú, quanto è maggiore la probabilità che un uomo a dati uguali le abbia piuttosto rispettate che disprezzate. […] È cosí poco libero il dire la verità fra gli spasimi e gli strazi […]. Ogni atto della nostra volontà è sempre proporzionato alla forza della impressione sensibile, che ne è la sorgente; e la sensibilità di ogni uomo è limitata. Dunque l’impressione del dolore può crescere a segno che, occupandola tutta, non lasci alcuna libertà al torturato che di scegliere la strada piú corta per il momento presente, onde sottrarsi di pena. […] Allora l’innocente sensibile si chiamerà reo, quando egli creda con ciò di far cessare il tormento. […] Una strana conseguenza che necessariamente deriva dall’uso della tortura è che l’innocente è posto in peggiore condizione che il reo; perché, se ambidue sieno applicati al tormento, il primo ha tutte le combinazioni contrarie, perché o confessa il delitto, ed è condannato, o è dichiarato innocente, ed ha sofferto una pena indebita; ma il reo ha un caso favorevole per sé, cioè quando, resistendo alla tortura con fermezza, deve essere assoluto come innocente; ha cambiato una pena maggiore in una minore. Dunque l’innocente non può che perdere e il colpevole può guadagnare. La legge che comanda la tortura è una legge che dice: Uomini, resistete al dolore, e se la natura ha creato in voi uno inestinguibile amor proprio, se vi ha dato un inalienabile diritto alla vostra difesa, io creo in voi un affetto tutto contrario, cioè un eroico odio di voi stessi, e vi comando di accusare voi medesimi, dicendo la verità anche fra gli strappamenti dei muscoli e gli slogamenti delle ossa».
Osservando la foto di Christian Gabriel Natale Hjort in stato di fermo, custodito dalle forze dell’ordine, è facile provare una sensazione di forte disagio, di fastidio, perché in quell’immagine convivono paradossalmente i più alti ed i peggiori esempi del senso del servizio e della dedizione allo Stato. In altro, sulla parete di fondo della caserma, campeggia una fotografia dei giudici antimafia Falcone e Borsellino. Sotto lo sguardo di questi modelli di virtù, pessimi operatori che indossano la divisa dei Carabinieri stanno compiendo una vera e propria tortura ai danni di un diciannovenne.
Sarebbe superfluo e forse addirittura fuorviante citare gli innumerevoli casi di violazione dei diritti umani dei detenuti, dei fermati, da parte delle forze dell’ordine. Ma chi scrive fa l’avvocato e non può non ricordare a se stesso che, poiché «la difesa è un diritto inviolabile» (art. 24 comma 2 della Costituzione), «l’avvocato ha la funzione di garantire al cittadino l’effettività della tutela dei diritti» (art. 2 comma 2 della Legge 247/2012 sull’ordinamento forense): non a caso, in attuazione di tali principi, divenendo avvocati si giura di impegnarsi «ad osservare con lealtà, onore e diligenza i doveri della professione di avvocato per i fini della giustizia ed a tutela dell’assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento» (art. 8 L. 247/2012).
Orbene, poiché «le pene non possono mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità» (art. 27 comma 3 della Costituzione), è assolutamente intollerabile, per qualsiasi avvocato, quanto accaduto al giovane cittadino statunitense, sebbene presunto colpevole di un omicidio che indigna e che “grida vendetta”. Ma la vendetta, in uno stato di diritto, è unicamente la compensazione del disvalore con una punizione rieducativa del reo, dosata dal giudice sulla base delle norme tassative del codice penale, unita all’esigenza di un suo ravvedimento operoso, inclusivo del ripristino pecuniario per il danno cagionato. Null’altro. E, in ogni caso, solo laddove la colpevolezza dell’imputato risulti accertata «al di là di ogni ragionevole dubbio» (art. 533 del Codice di procedura penale).
L’alta funzione della difesa consiste proprio in questa garanzia: che i diritti dell’imputato siano sempre e comunque tutelati ed effettivamente esercitati, indipendentemente dalla gravità della sua posizione, dall’atrocità dei suoi crimini e dal disgusto che essi suscitano.
Il senso dello Stato, la civiltà giuridica, sono esattamente questo.
Perché “occhio per occhio” è un principio che fortunatamente non appartiene a questa epoca e, per curare una ferita, non può tollerarsi che se ne provochi un’altra! Con buona pace dei sostenitori di un giustizialismo da regime di polizia, che vorrebbero negare la civiltà ed inneggiano alla tortura del giovane americano: l’augurio è che costoro non vengano mai a trovarsi, magari da innocenti, nella stessa situazione del presunto colpevole ritratto in quella caserma.
Ritratto in una situazione che – sia licenza pensarlo – lo stesso Vicebrigadiere Cerciello Rega, trovandosi al posto dei colleghi autori della tortura in questione, non avrebbe mai consentito, da uomo dello Stato qual era.
Con le più sentite condoglianze alla Famiglia della vittima e la più autentica vicinanza alla parte sana dell’Arma dei Carabinieri, che ha perso un eccellente collega, chi scrive manifesta il più convinto sostegno ed augurio di buon lavoro ai colleghi che difenderanno gli accusati, nell’auspicio che la verità sia accertata ed i colpevoli – tutti, sia gli assassini che i loro torturatori – vengano puniti in modo conforme alla Legge, nel rispetto dei loro diritti.”