C’è qualcosa d’indecifrabile nel problema dell’immigrazione.
Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite, negli ultimi cinque anni c’è stato un fenomeno di massa che ha interessato tutte le regioni del mondo. Si parla di circa 68 milioni di persone che, per varie ragioni, naturali o politiche o militari, sono state costrette ad abbandonare i territori dove vivevano. Una cifra enorme. Il 78% di queste persone, però, ha cercato rifugio in territori vicini al proprio luogo di origine.
L’immigrazione in Europa non ha queste caratteristiche. Più o memo l’8-10% degli immigrati lo è per ragioni politiche e rientra nella normativa internazionale prevista in questi casi. Tutti gli altri sono i cosiddetti emigranti “economici” che, almeno in teoria, non saremmo tenuti ad accogliere.
Dai racconti che conosciamo, per un Africano indigente, partire significa abbandonare la propria terra, vendere i propri averi e imbarcarsi in un’avventura spesso mortale, affidandosi ai mercanti di uomini che, però, vogliono essere pagati. La prima domanda è: come fanno questi disgraziati a pagare? La famiglia africana è molto “allargata”. Forse c’è un contributo collettivo, forse si vendono tutti i propri miserabili averi, forse si sconta con il lavoro una parte del prezzo del viaggio, che oscilla fra i 3.000 e i 5.000 dollari. È difficile dare una risposta.
Dopo una lunga e micidiale traversata sahariana, arrivano in Libia. Lì, i mercanti che se li sono portati appresso, li “vendono”, pare, ai custodi dei campi o alla “polizia” libica, che li rinchiude in lager dove, a detta dei profughi, avviene di tutto; stupri, omicidi, torture, maltrattamenti di ogni genere. Si dice che eventuali condizioni di favore siano pagate a parte. Come, con quali soldi? In Turchia li paghiamo noi. In Libia?
In questi “paradisi” dell’accoglienza libica sostano per un tempo indefinito, a volte un mese, a volte tre – sei mesi, addirittura un anno, secondo la simpatia o l’interesse dei carcerieri e secondo la disponibilità degli scafisti. Chi paga il loro soggiorno infelice?
Gli scafisti li “comprano” dai carcerieri e li imbarcano. Si parte per la meta agognata. La traversata è dura, difficile, pericolosa. I gommoni (chi li vende?) sono stracarichi fino a compromettere il galleggiamento delle imbarcazioni. I profughi sono dotati di giubbotti salvagente che, poi, dovranno essere restituiti agli scafisti. Non si mai, potrebbero rimetterci. Chi paga gli scafisti per questo “servizio”? Ancora i profughi?
Se tutto va bene, ai limiti delle acque territoriali libiche c’è un appuntamento con qualche nave pietosa, in genere preavvertita del carico, e si fa il trasbordo. I gommoni tornano indietro e la nave di soccorso si dirige verso l’Europa. Il “servizio” delle navi di soccorso non si paga. Sono organizzazioni di volontariato. Ma una nave costa: costa l’equipaggio, costa il comandante, costa l’olio combustibile, costano i viveri e le medicine. Costa tutto. Chi paga? La buona volontà della gente?
Poi, finalmente, c’è l’approdo alle coste europee, e qui sappiamo tutto; come sono accolti, chi paga (siamo noi), come saranno assistiti e distribuiti in altri campi di concentramento oppure, per far migliore figura, in hot spot.
Gli immigrati “economici” saranno respinti con un foglio di via che non serve a nulla perché possono fare ricorso e passano altri tre anni, escono e vanno in giro a pulire i vetri, a vendere mazzi di fiori, a raccogliere pomodori o patate a 50 centesimi a cassetta o diventano i manovali della camorra e della mafia. Ma questo è un altro discorso che conosciamo bene.
Torniamo alla questione dei soldi. Chi paga? Chi c’è dietro questo traffico di vite umane? Non credo che si tratti di galantuomini che mettono le mani sul loro portafoglio per dare una speranza di cambiamento di vita a centinaia di migliaia di diseredati. Non ne conosco di questi benefattori dell’umanità.
Però, mi viene spontanea un’altra domanda; qual è il loro profitto? Se trafficassero in droga o in armi, in giovani donne o in organi umani, c’è una richiesta infame e un prezzo da pagare per soddisfare tale richiesta. Lo sappiamo tutti come funzionano queste cose.
Poiché non siamo più ai tempi dello schiavismo, con una forte domanda di schiavi dalle Americhe, il commercio degli uomini chi lo chiede? Chi lo paga? Dov’è il profitto dei mercanti? È possibile che i quattro miserabili soldi dei profughi paghino tutto, dal viaggio nel deserto alla stasi in Libia, al trasporto via mare (gommoni e navi compresi)?
Quali bilanci sontuosi dovrebbero avere le molte ONG che, all’improvviso, sono spuntate dal nulla come meduse nelle acque del Mediterraneo? Sappiamo, ad esempio, che alcune società internazionali dedite alla fornitura di mercenari professionisti per guerre locali si sono convertite al salvataggio in mare. Devono avere avuto la loro convenienza. Quale? Chi paga?
O il mondo è diventato improvvisamente misericordioso o c’è un disegno oscuro che mi sfugge, volto a destabilizzare il nostro Paese e l’Europa perché, con qualche altro milione di profughi sul continente, qui scoppia la guerra civile.
I crescenti consensi al tentativo di Salvini, come nuovo Ministro dell’Interno, di fare chiarezza su questo business di carne umana dimostrano quanto l’opinione pubblica italiana (e non solo), sia sensibile e insofferente. Leggi draconiane temperate da un’illegalità diffusa stanno portando a un punto di rottura anche nei difficili rapporti politici di equilibrio in Italia, in Spagna, in Austria, in Germania, per non parlare dei Paesi del Patto di Visegrad.
In questo contesto, la questione dei Rom è tanto inopportuna quanto marginale. Mi ricorda certe discussioni sui bilanci delle grandi imprese; si discuteva per ore sull’eccessivo costo dei caffè offerto gli ospiti dell’impresa e si passavano in silenzio investimenti di centinaia di miliardi. Il caffé lo conoscevano tutti, un impianto nucleare o un ponte, pochi o nessuno.
I Rom c’infastidiscono, talvolta, ma sono una goccia nel mare. Se sono cittadini italiani, sono uguali a tutti gli altri (e come tali andrebbero trattati dalle Amministrazioni locali). Se sono irregolari, vanno trattati come tutti gli altri, e non certo perché sono Rom.
Roma, 21/06/2018